Concetto rurale

Adriano Bocca, Concetto rurale

Adriano Bocca, Concetto rurale

Tiziana Casapietra: Il lavoro che abbiamo selezionato per la Biennale si intitola Concetto Rurale ed è datato 1972. Mi puoi parlare di questo lavoro e degli anni in cui è stato realizzato?
Adriano Bocca: La mia giovinezza l’ho trascorsa con gli artisti che in quegli anni frequentavano Albisola e in particolare con coloro per i quali la ricerca era fuori dall’ambito della pittura.

TC: Non hai mai pensato a questo lavoro come a un gesto volutamente dissacrante nei confronti di uno dei più importanti interpreti dell’arte contemporanea?
AB: Chi conosceva Fontana sapeva che non avrebbe mai considerato dissacrante un fatto d’arte. Non sopportava la volgarità, ma concedeva tutto all’arte. In quegli anni io preferivo frequentare Fontana, Manzoni; ad Albisola c’erano anche pittori come Sassu o Capogrossi; ma a quindici, sedici anni si scelgono sempre gli estremi. L’operazione che ho fatto su Fontana intendeva richiudere lo spazio che lui aveva aperto.

TC: Cosa ti ha lasciato l’Albisola dei Fontana e dei Manzoni?
AB: In quegli anni io avevo la fortuna di lavorare alla fabbrica Ceas dove potevo incontrare uomini che, come lo stesso Fontana, erano estremamente generosi nei confronti di ragazzi come me che cominciavano a fare qualcosa. La loro simpatia era però mediata da un estremo rigore. In questa fabbrica oltre a Fontana, lavoravano Crippa, Garelli… poi andavi al Bar Testa dove tra gli altri trovavi Fabbri, Capogrossi, Mario Rossello e Dangelo. Vivevamo tutta la giornata lavorativa vicino a queste persone; se poi eri fortunato riuscivi anche a infiltrarti e a scroccare una cena da Pescetto e continuavi a imparare.

TC: Parlami della Ceas.
AB: La Ceas, ceramisti associati, era una squadra di tre persone: Pedrin, un bravissimo torniante; Mantero, un fornaciante, perché in quella fabbrica si cuoceva ancora a legna; e Platino, l’uomo del colore, quello che preparava le misture. Qui gli artisti trovavano un supporto tecnico formidabile.

TC: È questa quella che tu chiami la “scuola” dove ti sei formato?
AB: Sì, arrivavi lì al mattino e stavi l’intera giornata con questi personaggi che conoscevano tutte le tecniche e tutti trucchi, ma avevano anche la capacità di inventare. Alla fine della giornata se il mio lavoro non era buono, il signor Platino ci metteva una mano sopra e lo schiacciava. Era una scuola dura, una scuola di vita.

TC: Come sono finiti quegli anni, che cosa è successo dopo?
AB: A tirare le fila di tutto questo erano Tullio Mazzotti e Fontana. Ma c’era anche un grande gallerista come Cardazzo e un artista come Jorn. Tra il 1967 e il 1973 tutti questi personaggi sono scomparsi. Mancando le figure propulsive, Albisola è entrata in un momento di crisi. È così che comincia la storia di Calice Ligure dove si affaccia la nuova generazione, quella di Mondino, di Arrojo, di Rougemount, Moncada, Dova. In questo caso a fare da collante era Scanavino che era nativo proprio di Calice. Io stesso sono andato a Calice Ligure nel 1971 a fare una mostra alla Galleria di Franz Paludetto e lì ci siamo trovati con alcuni pittori, come Nando De Filippi. In quel periodo ad Albisola invece c’era un vuoto, e allora ho cominciato a darmi da fare per portarvi quegli artisti che, a Calice, gravitavano attorno alle gallerie di Paludetto e di Remo Pastori. In fondo Calice è solo a 26-27 km da Albisola. Mi piaceva l’idea di riportare gli artisti alla ceramica. È così che si è costituita ad Albisola la generazione degli anni ‘70-’80, che ci ha dato molte soddisfazioni.

TC: Chi frequenta Albisola in questo periodo a cavallo tra gli anni ’80-’90?
AB: Tra le figure di maggior rilievo, che ho introdotto a fare ceramica, c’è Eduardo Arrojo e Aldo Mondino. Di tutti questi artisti, ci sono segni del loro passaggio ad Albisola.

TC: Memore della tua esperienza ad Albisola negli anni di Fontana e Manzoni, hai cercato di colmare il vuoto che si è configurato negli anni ‘70 riportando gli artisti alla ceramica?
AB: I sopravissuti della grande epoca di Albisola erano Fabbri e Rossello. Una mattina chiesi a Fabbri di darci una mano per cercare di superare questo vuoto. Alla mia richiesta di aiuto, ricordo che Fabbri mi disse una cosa importante: “Guarda Adriano, adesso tocca a voi, noi la nostra parte l’abbiamo fatta”. E quindi sulla base di quello e nel rispetto della storia, ci siamo messi sotto e abbiamo fatto un’infinità di mostre a cominciare con Dieci personaggi per un museo dove reinterpretando dieci dei maggiori personaggi che erano passati ad Albisola, si affermava una presenza nuova. C’eravamo noi, i più giovani, come Scrofani, Aonzo e Viale. A quell’epoca era ancora vivo Wifredo Lam. Mi ricordo la mostra del pane, tutte le sculture di pane che abbiamo fatto, a cui Lam aveva partecipato. Questa lunga partita si chiude con la mostra organizzata nel 1990 dalla Camera di Commercio, che si intitola Albisola. Gli Artisti. La Ceramica. In quella mostra erano presenti molti artisti, tutti quelli che avevano lavorato la ceramica ad Albisola, non mancava proprio nessuno.

TC: Cosa è successo dopo?
AB: Io speravo che succedesse quello che è successo a me, che qualche giovane nutrisse lo stesso amore per la storia, per la continuità di una bella storia, che crescesse attraverso di noi.

TC: Poi hai abbandonato la ceramica in favore della pittura?
AB: Oggi faccio prevalentemente pittura e la ceramica mi può essere utile solo quando è funzionale ai racconti dei miei quadri. Dopo gli anni Ottanta nessuno parlava più di arte. Tutti parlavano di mercato, di danaro, di carriere più o meno possibili o impossibili. In Europa e negli Stati Uniti sentivo dilagare un senso di decadenza. Questa è stata una delle ragioni per cui ho preferito andare in Asia, libero dalle mode e dalle leggi di mercato, a indagare culture diverse, imparare tecniche pittoriche che non conosco e a fare altri sogni.

Concetto rurale di Adriano Bocca è stato esposto ad Albisola nel 2003 in occasione della II Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea.