Albisola e la ceramica: un’ identità sul filo della storia


Cecilia Chilosi



Ha ancora un senso lavorare la ceramica nei luoghi della produzione, merita ancora venire ad Albisola per misurarsi con la terra, considerato che ormai è possibile creare senza il supporto della fabbrica, dato che ovunque si può disporre delle materie prime e di un forno elettrico per le cotture? Possiamo forse trovare una parziale risposta a questo interrogativo se partiamo dal semplice presupposto che la forza del presente è nel nostro passato, che forse è proprio il bisogno della storia, in quanto ragione dell’agire, a condurre gli artisti nei luoghi dove la propria appartenenza culturale si identifica con un’esperienza ininterrotta. Nonostante negli ultimi decenni la tendenza all’acquisizione di nuove capacità tecnico-fabbrili abbia favorito, per diversi autori, la dimensione individuale del fare, Albisola conserva ancora oggi una rete di manifatture nelle quali poter ricercare il supporto tecnico dell’artigiano ceramista, secondo una consuetudine dalla quale sono scaturiti, soprattutto nel secolo scorso, frutti che non si possono dimenticare. Lo stimolo iniziale di questa storia nasce dalla combinazione di circostanze  favorevoli che vanno dal bisogno di manufatti, alla disponibilità degli elementi necessari alla loro realizzazione: argilla, acqua, legna da ardere, e dalla presenza del sole per asciugare i prodotti e del mare per trasportarli in terre lontane. Tutto questo non sarebbe stato sufficiente se non si fosse aggiunto il valore dato dagli esempi che arrivano dall’esterno, spesso proprio via mare. La presenza del mare nel passato è stata fonte primaria di sopravvivenza per marinai e pescatori, e anche per i vasai i cui lavori venivano esportati sulle navi dei ricchi mercanti. Attraverso l’Oceano arrivarono dalla Cina in Occidente preziose porcellane, fonti di ispirazione per le ceramiche ottomane importate dai naviganti genovesi, soprattutto conosciute e imitate dalle officine savonesi e albisolesi.
In tempi più recenti, i protagonisti della grande stagione artistica del Novecento sono venuti attratti dal mare, dalla possibilità di poter frequentare la spiaggia e gli stabilimenti balneari che si affacciano proprio dirimpetto alle fabbriche.
Il secolare rapporto che lega Albisola alla ceramica ha conosciuto alterne vicende determinate dal variare delle condizioni storiche e socio-antropologiche. Nei momenti di decadenza l’attività ha saputo però aderire ai mutamenti dell’arte, del pensiero e degli stili, rinnovando i repertori attraverso nuovi innesti giunti dall’esterno, grazie alla circolarità e diffusione dei tipi e dei decori. Già nel XV e XVI secolo, la fiorente produzione di laggioni (piastrelle policrome da rivestimento), per la quale i ceramisti albisolesi andavano famosi anche all’estero, derivava la sua tipologia dagli iniziali apporti toscani e quindi dall’arte islamica, mediata attraverso i modelli degli azulejos spagnoli e gli influssi rinascimentali1. Largamente impiegate come parato murario, oltre che pavimentale, queste mattonelle erano pure usate nel rivestimento degli atri–scala, grandi vani aperti all’ingresso delle abitazioni, dove i ricchi mercanti esercitavano i propri affari.
Seppure l’attività produttiva nel territorio sia già documentata a partire dalla fine del 1400, i più antichi esempi datati di ceramica albisolese sono rappresentati da due pannelli in piastrelle smaltate policrome, l’uno dipinto da Giovanni Giacomo Sciaccarama nel 15542 (ora nel Museo della Ceramica “Manlio Trucco”, dopo il recente restauro), l’altro, opera di Gerolamo Urbinate del 1576, nella parrocchiale di Albissola Marina, ispirato a un dipinto di Antonio Semino con L’adorazione dei pastori.
La lavorazione di piastrelle da rivestimento, decaduta nel XVII secolo, rifiorirà nel Settecento, favorita dalla diffusione dell’architettura barocca di villa, di cui si conservano splendidi esempi soprattutto pavimentali. Essa conoscerà una ripresa anche nel XX secolo, negli anni Venti e quindi negli anni Trenta, col secondo futurismo, il cui programma di una progettazione globale dell’universo sarà destinato, negli intenti dei promotori, a ridefinire ogni settore, compreso quello dell’architettura abitativa. In quest’ambito si segnala l’impegno nella plastica murale per ambienti di autori quali Enrico Prampolini, Tato (Gugliemo Sansoni), Fillia (Luigi Colombo) e Fortunato Depero3.
Gli anni Sessanta del Novecento segneranno un largo impiego di questo prodotto, utilizzato soprattutto come parato murario, mentre una delle sue più originali applicazioni sarà rappresentata dalla pavimentazione del Lungomare degli artisti di Albissola Marina (1963), realizzata in tessere musive di impasto vetroso.
Al ruolo applicativo della ceramica si sono dedicati molti dei famosi artisti che nel ‘900 hanno frequentato i forni di Albisola. Si ricorda al proposito la realizzazione di ceramiche di arredo e in piccola serie svolta nell’ambito delle Edizioni Ceramiche Futuriste promosse da Tullio d’Albisola nel 1928-’29.
Tra gli esempi più significativi è quello di Lucio Fontana, che vanta un’assidua collaborazione con architetti e arredatori, documentata da un ricco repertorio di fotografie conservate nell’Archivio Fontana di Milano. Alla Mazzotti, nel 1947, su commissione degli architetti Zanuso e Menghi, egli cuoce le sue prime ceramiche spaziali a ornamento di un edificio di via Senato a Milano, mentre esegue per il Cinema Arlecchino (1948) il grande fregio con concitata scena di battaglia. Di Fontana è nota pure l’attività di progettazione di oggetti per interni, come camini, paralumi e maniglie, nonché di esemplari dedicati all’arredamento navale, come i pannelli realizzati per la motonave Conte Biancamano nel 1949, ora del Comune di Albissola Marina.
L’esperienza ceramica di Giacomo Manzù è legata al progetto globale degli arredi dell’abitazione milanese e della villa di San Remo di proprietà della famiglia Lampugnani, eseguiti nel 1947 presso la Mazzotti. Anche Wifredo Lam non ha disdegnato il ruolo applicativo della materia realizzando alla FAC di Albisola in serie stoviglieria domestica. Alle Ceramiche San Giorgio Asger Jorn ha invece ricevuto il supporto nella esecuzione, cottura e messa in opera dei grandi pannelli murari per lo Staatgymnasium di Aarhus (1959) e per l’Art Centre di Randers (1971), in Danimarca.
Se dunque la ceramica albisolese ha avuto nei secoli un’importanza considerevole anche come complemento architettonico e di arredo, peraltro spesso trascurato dagli studi maggiori, la storia delle sue fortune è soprattutto riferita alla nascita e alla diffusione delle maioliche barocche. Già dall’origine di questa produzione, alla fabbricazione di stoviglieria comune a basso costo in terracotta ingobbiata e graffita, riservata alle classi meno abbienti, se ne era andata affiancando una più aulica in maiolica. Destinate ad appagare i gusti di una committenza aristocratica, avvezza alle lussuose suppellettili in argento, queste ceramiche dei secoli XVI e XVII si distinguono per una grande raffinatezza dei modelli e dei decori, spesso eseguiti da importati artisti che non disdegnavano di prestare i loro disegni per la realizzazione di opere di alto artigianato4. La prestigiosa fortuna della produzione barocca va pure collegata, in un periodo di grandi epidemie, alla storia della medicina, in particolare dei rimedi che venivano contenuti e conservati nei prestigiosi vasi ordinatamente allineati sugli scaffali delle farmacie5. Si sa che i corredi savonesi e albisolesi erano all’epoca particolarmente ricercati. I documenti d’archivio, del resto, ci riconsegnano un panorama fittissimo di trasporti, commissioni e arrivi un po’ ovunque in terre lontane6.
La maiolica savonese e albisolese del XVI secolo è caratterizzata dapprima da un’ornamentazione desunta dai decori dell’Italia centrale e quindi da soggetti di derivazione mediorientale (anatolici) o ispano-moreschi7. In seguito risulterà ispirata alla porcellana di esportazione del tipo “Kraak”(dalle imbarcazioni su cui veniva trasportata, le caracche, appunto), ampiamente importata in Europa prima dai portoghesi e, dal 1612, dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Dal modello cinese deriva invece un’ornamentazione definita “calligrafico naturalistico”, inizialmente blu cobalto su fondo bianco o grigio-azzurro e quindi in policromia, che compone motivi orientali quali: piante lacustri, insetti, uccelli, pagode, con altri occidentali: castelli turriti, soggetti religiosi, storici e mitologici. Alla metà circa del Seicento a questo stile si affianca quello “a tappezzeria” in cui alla stilizzazione degli elementi naturali, paratatticamente disposti sulla superficie vasale, si accompagna l’introduzione di scene figurate cui gradatamente subentrerà, alla fine del secolo, quello “a scenografia barocca”, ispirato all’opera dei maggiori pittori genovesi e aggiornato al repertorio di disegni, illustrazioni di libri e incisioni.
Visti con occhio moderno, la grande bellezza di tali manufatti, nati per soddisfare una necessità pratica, deriva proprio dalla felice commistione tra funzionalità e estetica, che ha certo contribuito al successo di questa ceramica, conosciuta, ambita e diffusa in tutto il mondo. I modelli in stile saranno anche in seguito ampiamente imitati, in particolare, dalla fine dell’Ottocento si registra una costante ripresa dell’“antico Savona”. Ma, nonostante artigiani e artisti si siano confrontati con le raffinatissime ceramiche del passato, ancora oggi riprodotte dalla quasi totalità delle manifatture albisolesi, la perdita della funzione ha incrinato l’elegantissimo equilibrio dei prototipi, mai più, nemmeno vagamente, eguagliato.
Nel corso del Settecento l’affermarsi anche in Europa della porcellana e successivamente la crescente popolarità della terraglia bianca inglese, metteranno in crisi l’alto artigianato “di lusso” della grande tradizione barocca ligure. I nostri ceramisti reagiranno creando, accanto alle perduranti tipologie seicentesche, nuovi motivi “a figurette” tra tronchi d’albero e rovine, a “uccelli e prezzemolo”, mentre, negli ultimi anni del Settecento, Giacomo Boselli8 introdurrà nei suoi repertori un’intensa e variata policromia.
Progressivamente anche la tecnica della maiolica decade nelle Albisole dove l’attività viene concentrandosi su una produzione popolare a basso costo9 la cui enorme diffusione sarà pure favorita da un importante cambiamento nel costume e nelle abitudini delle classi più umili. Si tratta dell’introduzione a livello di massa del piatto individuale, che viene soppiantando l’uso precedente dell’unica grande scodella comune.
Già alla fine del ‘700 si fabbricavano stoviglie dalla caratteristica colorazione marrone aranciata, ornate sottovernice da semplici motivi aniconici in manganese, le cosiddette “taches noires”, di gusto neoclassico e contenuta eleganza. A questa produzione si aggiunge, dagli inizi dell’Ottocento, quella della “terraglia nera”, terracotta dalla tipica colorazione scura, alla quale in seguito viene affiancandosi la ceramica gialla con decori  essenziali dati da spugnature in ramina o manganese. Nel corso del XX secolo si svilupperà anche l’importante settore della lavorazione semindustriale di pentole da fuoco in terra refrattaria. L’economicità e la rapidità di esecuzione fecero la fortuna di queste produzioni i cui meriti estetici furono però a lungo disattesi. Bisognerà infatti attendere tempi recenti per vedere valorizzata l’elegante semplicità di questi manufatti, in cui il ruolo della terra viene esaltato nella duplice significazione di materia e di strumento d’uso. Mentre la vasta produzione in stile, che ha avuto origine dalla grande tradizione barocca, ha smarrito la strada del rinnovamento, l’estrema semplificazione figurale di questi oggetti ha costituito un riferimento per quegli artisti che in tempi moderni hanno approfondito la loro ricerca partendo proprio dal ruolo poveristico e materico della ceramica popolare.
Una sostanziale frattura si è aperta tra la storia della ceramica albisolese del Novecento e quella dei secoli precedenti. La distinzione ora non è più tra produzione di lusso e produzione popolare, ma il nuovo, inedito, aspetto, è costituito dal prepotente ingresso dell’arte nel campo della lavorazione delle terre. Nuovo non perché nel passato non ci siano stati artisti che si siano cimentati con la materia, ma per la prorompente carica innovativa che il fenomeno è venuto ad assumere nel corso del secolo.
Certamente l’esempio destinato a imprimere un segno indelebile nella vicenda artistica ligure è quello di Arturo Martini, stabilitosi a Vado Ligure per circa un decennio, dal 1920 al 1930. In particolare, in questo contesto, si ricordano del grandissimo scultore trevigiano le ceramiche realizzate per la Fenice di Manlio Trucco nel 1927.
Alla fine degli anni Venti Albisola, entrata in contatto, grazie a Tullio d’Albisola con Marinetti e Munari e i rappresentanti della centrale futurista milanese, si trova ad essere la capitale della ceramica italiana10. Intorno alla ditta Mazzotti, i cui stessi locali sono progettati da Nicolaj Dijulgheroff, vengono gravitando i maggiori personaggi del panorama dell’avanguardia del tempo, tra cui: Fillia, Farfa, Prampolini, Depero, Munari, Dijulgheroff, Strada e Pacetti, autori pure della produzione di arredi d’uso commercializzate dalla manifattura. Ma, ancora una volta, cosa ha provocato questa felice contingenza artistica? Perché essa si è manifestata proprio ad Albisola? Possiamo ritenere che si sia verificata una favorevole alchimia grazie a una serie di positive contingenze. Innanzitutto ambientali, legate appunto alla piacevolezza del luogo. I prestigiosi artisti che frequentano, a partire dagli anni Trenta, e soprattutto nel secondo dopoguerra la località rivierasca, lo fanno sì perché l’ambiente è recettivo, ci sono le manifatture dove possono trovare ospitalità e aiuto o perché catalizzati dalla poliedrica figura di Tullio Mazzotti, ma pure perché anche allora era molto piacevole potere alternare ai doveri del lavoro i piaceri della spiaggia.



Note:
1. Si veda al proposito G. Farris, La ceramica in Liguria dal XVI al XVIII secolo, in Otto secoli di ceramica ligure, catalogo della mostra, Albisola Superiore, 13 settembre-12 ottobre 1986 e di A. Cameirana: Contributo per una ricerca sull’origine savonese delle decorazioni sopra i mattoni saccenti in “Atti del Convegno di Studi”, Sciacca 8-9 ottobre 1999. Per gli aspetti legati alla produzione albisolese, di D. Restagno: La fabbricazione della ceramica in Albisola, Savona, 1988. Sugli aspetti generali della ceramica savonese e albisolese esiste una ricca letteratura. Tra gli altri testi segnaliamo: C. Barile, Antiche ceramiche liguri-Maioliche di Albisola, Savona, 1975; F. Marzinot, Ceramiche e ceramisti di Liguria, Genova 1979 (2° ed. 1987); A. Cameirana, Antica maiolica savonese, Savona, 1990; a cura dello stesso autore: Nuove acquisizioni per un museo della  ceramica, Savona, 1995 e Antica maiolica savonese, Savona 2001.
2. D. Restagno-D. Ventura, Restauro del pannello in ceramica, G. G. Sciaccarama (1554) per l’hospitale San Nicolò di Albisola, Albisola 2001.
3. Ulteriori notizie in: L. Ughetto, Ceramica e aeroceramica futurista, in: C. Chilosi-L. Ughetto, La ceramica del Novecento in Liguria, Genova 1995, pp. 101-106.
4. Si vedano, tra l’altro, gli studi di A. Cameirana tra cui: Due statuine della fabbrica Ribatto con un’inedita sigla, in “Atti  XXVIII Convegno Internazionale della Ceramica”, Albisola 1995; Maioliche savonesi da affreschi di Bartolomeo Guidobono, in “Atti XXIX Convegno Internazionale della Ceramica”, Albisola, 1996.
5. Per la ceramica di farmacia: G. Farris, Ceramica e Farmacia, Genova 1982 e di C. Chilosi, E. Mattiauda e A. Zencovich, Cultura terapeutica e antiche farmacie nella Liguria Occidentale, Genova 1985.
6. Notizie in merito, tra l’altro, in: C. Varaldo, L’esportazione di ceramica savonese nella documentazione archivistica del XVII secolo, in: “Atti del V Convegno Internazionale della Ceramica”, Albisola 1972, pp. 337-347; A.M. Rossetti, Ceramica a Savona e Albisola nella seconda metà del ‘500. Produzione e commercio, in “Atti del XXV Convegno Internazionale della Ceramica”, Albisola 1992, pp. 149-164.
7. Per l’influenza dei modelli medio-orientali sulla ceramica savonese e albisolese si veda, tra l’altro, il catalogo, a cura di A. Cameirana, Antica maiolica savonese, Savona 2001, con bibliografia.
8. Per l’opera del Boselli si veda: L. Pessa, Giacomo Boselli, Genova, 1984.
9. Per quanto concerne gli aspetti della ceramica popolare si rimanda, per un approfondimento, a: A. Cameirana, V. Fagone, S. Riolfo Marengo, Nero & giallo. Ceramica popolare ligure dal Settecento al Novecento, Milano 1989.
10. Oltre al già citato testo di L. Ughetto, per un approccio alla ceramica futurista albisolese, si segnala il fondamentale catalogo, a cura di E. Crispolti, La ceramica futurista da Balla a Tullio d’Albisola,  Faenza/Albisola, 1982.