Pneumatici al femminile: Sylvie Fleury


Manuella Denogent



Introdotta rapidamente a livello istituzionale e nel circuito delle manifestazioni internazionali, l’opera di Sylvie Fleury (classe 1961) è l’espressione emblematica, ma al tempo stesso specifica, della scena artistica degli anni ’90.
L’artista realizza i primi lavori attingendo gli elementi del suo vocabolario dal campo della moda, della cosmesi, del lusso e dall’universo femminile in generale. La sua prima prova, una Shopping Bag (1990), sintetizza fin dall’inizio quella che sarà la sua prassi artistica: a Losanna, in un angolo della galleria Rivolta, sistema sul pavimento una decina di sacchetti di firme famose, che lasciano intravedere il loro contenuto, come il risultato di uno shopping recente. Posto non senza ambiguità in relazione con la sfera commerciale, di cui manipola i prodotti elitari, e con un’immagine stereotipata della donna, oggetto di desiderio e prodotto di lusso essa stessa, il suo  approccio le vale un’accoglienza quasi immediata e un po’ turbolenta, diffusa da una critica che vi legge un’assimilazione dell’arte alla moda, una posizione creativa incline alla facilità e non priva di compiacimento nei confronti del sistema commerciale.
In effetti, le proposte plastiche di Sylvie Fleury, letterali all’eccesso ed esenti da ironia nei confronti del mondo di cui si alimentano, non si adattano a una lettura appropriazionista, che suppone un’adesione noncurante, ma cosciente e quindi distaccata, rispetto ai prodotti di consumo, come avviene con l’estetica mimetica delle merci di Haim Steinbach.
In un certo senso insufficientemente ambigue, le opere di Sylvie Fleury condividono tuttavia con l’appropriazionismo un tentativo di sintesi tra l’estetica Pop e quella minimalista, a sostegno di un approccio che esplora la feconda permeabilità tra i domini connessi dell’arte, della moda, del design e della cultura popolare.
Ma se l’opera della Fleury stabilisce dei punti di congiunzione, degli scambi tra un universo e l’altro, non è comunque solo una trasposizione univoca di elementi del mondo femminile e della moda in quello dell’arte. Ad esempio, procedendo al recupero delle grandi figure del modernismo, l’artista sottolinea la complessa rete di influenze fra arte e ambiente quotidiano, in particolare l’assimilazione da parte della coscienza collettiva delle forme delle avanguardie — sempre nei modi del riciclaggio — entrate a far parte del repertorio stilistico della pubblicità, della moda o del design, le forme di un’arte ormai svuotata della sua funzione messianica o critica.
Così avviene con la sua reinterpretazione delle composizioni di Piet Mondrian, che Fleury personalizza trattando i piani di colore con della pelliccia sintetica, rimandando al celebre abito Mondrian di Yves Saint-Laurent; del resto è un materiale che prende a prestito dal mondo del prêt-à-porter, riconvertendolo in una declinazione di colori e di formati ai fini di una citazione del monocromo. Nella stessa logica, la serie Strecht, fotografie a colori di busti femminili troncati, vestiti degli ultimi stampati Prada, evoca in maniera ludica la pittura ottica di un Vasarely. O ancora, la disposizione di lattine di Slim Fast sul pavimento o di Coca Cola in una composizione murale all-over sono la trasposizione delle Brillo Boxes di Andy Warhol, aggiornata alla luce dei canoni di bellezza imposti alla donna dai media.
Tuttavia, considerare l’opera di Sylvie Fleury solo dal punto di vista dell’appropriazione d’immagini o di oggetti, siano essi ripresi da domini paralleli o interni al campo dell’arte, corrisponde a una lettura riduttiva, secondo la critica degli anni ’901 che applica una nuova griglia d’analisi più coerente con la letterarietà delle proposte plastiche dell’artista.
Perché, se è vero che per questi lavori si può riconoscere una derivazione dal readymade di Duchamp, la “contestualizzazione” operata da Sylvie Fleury non si applica tanto agli oggetti o alle immagini propriamente detti, importati sul terreno del museo, ma opera sulle pratiche socio-culturali contemporanee ad essi collegate, fra cui l’attività di consumo, che poi è anche quella maggiormente condivisa. Sotto questo punto di vista, le sue investigazioni sono sia il riflesso dei vari condizionamenti generati dalla nostra società, e in tal senso ci aiutano a prenderne coscienza, sia l’eco del suo impegno concreto in forme di culture parallele — il mondo della notte, della musica, in particolare i rock girlsgroups, o anche quello dei car-friends-clubs, che l’ha portata, per esempio, a creare nel 1997 She-Devils on Whells, la sua agenzia di customising di veicoli, una specie di servizio di consulenza rivolto al visitatore della sua esposizione — tutte, in definitiva, strategie di resistenza alla formattazione dell’individuo da parte del sistema socio-economico.
In questa prospettiva, la formulazione dei codici legati alle identità sessuali è una costante nella produzione di Sylvie Fleury. Le sue opere contrappongono all’immagine della donna oggetto di desiderio, enunciata ancora e sempre dal punto di vista maschile, la visione di una donna che si definisce e agisce, in un atteggiamento di emancipazione, in funzione dei propri desideri. Né vittima, né oggetto, la donna di Sylvie Fleury si afferma in un rapporto del tutto privo di complessi sia nei confronti del consumo — che fornisce i trucchi necessari al gioco delle apparenze e della seduzione — sia nei confronti dei domini finora indissociabili dall’universo maschile, come quello dell’auto, o ancor meglio quello della conquista spaziale rivista attraverso l’immaginario erotico, come nel caso della serie First Spaceship on Venus, in cui i missili rappresentano varie simbolizzazioni formali dell’attributo sessuale maschile.
L’opera in ceramica proposta da Sylvie Fleury, Fountain, un pneumatico di camion color oro riconvertito in fontana, è emblematica dei riferimenti incrociati che indicizzano la sua opera.
L’artista evoca l’universo fortemente maschile del trasporto stradale, un gruppo sociale che fra l’altro trova nella pratica del customising dei veicoli il mezzo d’espressione di una cultura imbevuta di glamour e di kitsch, a cui si ricollega il colore oro. Dal punto di vista della tecnica operativa, l’opera appartiene all’insieme più vasto, della fine degli anni ’90, dei calchi in bronzo di motori di grandi marche automobilistiche americane, o della borsa Kelly, mitica figura di borsetta come poche altre, o ancora delle scarpette molto di tendenza di Gucci. Questi oggetti, colati in bronzo, cromati e sistemati su una base, acquisiscono grazie a tali procedimenti lo statuto di scultura, accentuando nello stesso slancio la propria feticizzazione.
L’opera in ceramica è anche un gioco di citazioni, poiché si riferisce in duplice misura alla figura tutelare di Marcel Duchamp e ai suoi più celebri readymade: La ruota di bicicletta e Fontana.
Nello stesso spirito, la prima manifestazione delle Shopping Bags si riferiva anch’essa esplicitamente — nel titolo C’est la vie tratto dal nome di un profumo di Christian Lacroix — a Marcel Duchamp, fotografato da Man Ray vestito da donna sotto lo pseudonimo Rose Sélavy.
Quando Sylvie Fleury occupa lo spazio della galleria o del  museo con prodotti estrapolati direttamente dal circuito del consumo, il suo approccio non è meno critico. I suoi  lavori non sviluppano nessuna messa in discussione del sistema dell’arte e dell’istituzione, né alcun discorso di rivendicazione femminista, al contrario di quello che fa Sherrie Levine.
L’opera della Fleury ci rivela gli stereotipi culturali e i miti collettivi della società contemporanea, sulla base di un vocabolario plastico elaborato partendo dai suoi stili di vita e miti personali. Sorgente di energia emancipatrice, la sua arte gioca così liberamente con i canoni collettivi culturali per meglio sviluppare un immaginario che le sia proprio, dominando lo scarto che c’è oggi fra le convenzioni del gioco delle apparenze e l’affermazione di una individualità. “Lei sa che è dal rapporto tra l’imballaggio e il desiderio che prende forma il commento più dissonante e inquietante sulla nostra condizione attuale”.2



1 Sylvie Fleury, testi di Yves Aupetitallot, Christian Bernard, Markus Brüderlin, Liam Gillick, Michelle Nicol, Les presses du réel, Digione, 2001.
Lionel Bovier, Across/Art/Suisse, 1975-2000, Skira, Seuil, 2001.
2 Liam Gillick, “Appuie sur l’accélérateur”, Sylvie Fleury, op. cit., p.41.