Domenica Aglialoro

Domenica Aglialoro, 193 Days from the Massacre of the Silencio at Caracas

Domenica Aglialoro, 193 Days from the Massacre of the Silencio at Caracas

Domenica Aglialoro, 200 Days from the Massacre of the Silencio at Caracas

Domenica Aglialoro, 200 Days from the Massacre of the Silencio at Caracas

Domenica Aglialoro, 200 Days from the Massacre of the Silencio at Caracas

La mia ceramica è donna

Lavoro con la ceramica più o meno da vent’anni e ancor oggi non ho il coraggio di dichiararmi ceramista. Il ceramista svolge un mestiere unico che richiede tempo, studio, esperienza e molta pazienza. Invece io impiego le tecniche basilari della ceramica e con i ceramisti di mestiere condivido la passione per il materiale, perché la ceramica è una passione. Il lavoro manuale è per me un piacere: modello piccoli oggetti con i quali realizzo grandi assemblaggi e li cucio su stoffe, che in questo caso sono camicie di forza. Il mio rapporto con la ceramica è molto intimo e si svolge dentro la mia casa, su un tavolo da disegno sempre molto pulito e ordinato, nonostante l’argilla sia un materiale che non favorisce queste condizioni. In un sacchetto di creta è contenuto per me tutto il mondo visibile e invisibile e questo mi permette di non dover uscire di casa per cercare gli oggetti del mondo. Alla ceramica concedo tutta la carica concettuale del mio lavoro che ha come tema il femminile. E allora posso dire che la mia ceramica è donna.

Domenica Aglialoro

Getulio Alviani

Getulio Alviani, 1.2.3.4 (inscritto nel cerchio)

Getulio Alviani, 1.2.3.4.5 (inscritto nel cerchio)



Getulio Alviani, 1.2.3.4.5.6 (inscritto nel cerchio)

El Anatsui

El Anatsui, Personal security

El Anatsui, Personal security

Forse, la caratteristica più notevole dell’argilla è la sua fragilità, specialmente dopo la cottura, ma l’ironia della sorte vuole che questo sia lo stadio nel quale si pensa di averla portata su un piano più “sofisticato” o “evoluto”. Ai giorni nostri, l’argilla non viene estratta nelle aree metropolitane, fatte di edifici e di grattacieli, ma in umili cave d’aperta campagna. I prodotti finiti ricavati dall’argilla, tuttavia, specialmente quelli lucidamente smaltati, sono quasi tutti consumati nelle città, più che nei paesi.

Sono nato e cresciuto in una località di campagna e non ricordo ci siano mai stati crimini violenti di nessun tipo. Per me, adulto con una ampia esperienza dell’ambiente metropolitano, una delle caratteristiche intriganti della cultura della società urbana è il crimine violento.
Probabilmente, l’industria più fiorente in un mondo che, ormai urbanizzato o costretto dalle circostanze a divenirlo gradualmente, ruota intorno alla sicurezza, soprattutto su un piano individuale. Credo che a differenza della guerra, che è violenza pubblica e aperta, la sicurezza sia fondamentalmente una questione privata, radicata nell’individuo e nella sua capacità di rendere sicuro il territorio che lo circonda. Su questo piano, è un bene di prima necessità estremamente vulnerabile. Si inventano di continuo tutti i gadgets possibili per mantenere l’inviolabilità di questo spazio personale. Più sono le precauzioni, più aumenta la vulnerabilità. Maggiore è il grado di costruzione, maggiore è la fragilità.

El Anatsui

Nicole Awai

Nicole Awai, Oozing red, white and blue: recession, incursion, infraction  1

Nicole Awai, Oozing red, white and blue: recession, incursion, infraction  2

Nicole Awai, Oozing red, white and blue: recession, incursion, infraction  3

Prospettive e periferia: la contemplazione del fango

La prospettiva (come punto di vista) e la periferia (come visione al di là di un punto, come veduta che sfugge) mi hanno sempre interessato, sia in senso visivo, sia in senso concettuale. Il mio lavoro analizza, e qualche volta osserva, il passaggio tra questi due termini, periferia e prospettiva.
Sono attratta da oggetti come le bambole, i ninnoli, i manichini usati in medicina, i sostegni per le parrucche, i manufatti storici e religiosi, i giocattoli e nel mio lavoro li utilizzo spesso perché sono impregnati di significati e/o contenuti culturali. Nel 2000, la bottiglia ornamentale del rum Angostura, un oggetto che mi ha affascinato sin dall’infanzia, compariva in un mio trittico dipinto intitolato They gave me a glass of rum, and one said to me, what did I think about all this?. La citazione è tratta da Absolute Beginners di Colin MacInnes. Il punto cruciale di questo libro diventa un’esperienza di passaggio tra prospettiva e periferia. Nella Londra della fine degli anni Cinquanta, durante la carica degli scontri razziali di Notting Hill, un fotografo di strada diciottenne aiuta un conoscente nero a sfuggire alla collera della folla bianca inferocita. I due si rifugiano in una cantina dove è in corso “una specie di gabinetto di guerra delle Indie Occidentali”. Il ragazzo bianco sente di sfuggita la conversazione di un membro del consiglio con i suoi parenti in Giamaica: “Mi sono chiesto: come si sentirebbe la mia gente, là fuori a Kingston, circondata da migliaia di facce nere, quando si diffonderà la notizia?” — e anche — “come saranno trattati i bianchi in tutti quei posti? Perché un grande errore che molta gente di qui fa è quello di credere che tutti i negri lavorino sui mezzi pubblici di Londra… mentre gli stacks sono uomini d’affari e professionisti che conoscono tutte le risposte”.
Nel trittico, l’immagine della bottiglia è dipinta lontanissima sullo sfondo, ma come se emergesse dalla superficie. Sembra che la bottiglia desideri scappare dal quadro e assumere una forma fisica — e così è. In Washed and Unwashed ho realizzato due repliche in argilla della bottiglia con stampi a pressione. Una è dipinta per apparire come la bottiglia originale (la versione nera), l’altra è “sbiancata” ed è in un tono molto più chiaro. A questo lavoro ha fatto seguito un’installazione multimediale in un letto, Oozing Red White and Blue. Sopra un tappetino rettangolare fatto di foglie di banana, posto sul copriletto di satin rosso di un letto matrimoniale, si trovano venti figure di bottiglie disposte su quattro file (ciascuna composta da cinque elementi). Le figure sono dipinte in una gamma di toni color carne che alludono al cioccolato, al caramello, ai morbidi bonbon e ai dolciumi ricoperti di nocciole. Da ognuna di queste dolci sentinelle trasuda un fango cremoso e vischioso diversamente colorato di rosso, bianco e blu. Alcune figure sembrano sul punto di rompersi e di disintegrarsi a causa della perdita di liquido. Altre sembrano completamente ricoperte e avvolte dal fango. Il fango è per me qualcosa di sfuggente, che si muove in modo impercettibile. Penso sia qualcosa che succede incessantemente senza che si possa vederlo, perché accade sempre in uno spazio che si intravede, che cambia, in periferia. Sul piano metaforico e nell’ambito dei miti, il fango incarna gli eventi liminali, i momenti di flusso. Il fango in natura va dappertutto, cambia luogo e ritorna dov’era, ma riesce anche a creare nuovi equilibri. Nel corpo umano, i fanghi spezzano le tensioni di superficie, rendono possibile la coesione e l’integrazione, creando un ambiente ideale. Quando qualcosa viene a contatto con un elemento o un evento corruttori, quando è infettato e privato dell’equilibrio, il fango soffoca, ricopre e può addirittura far morire quella cosa, oppure può dargli una sorta di nuova vita.
Ad Albisola, ho pensato al fango come evento corruttore — e qui entra in gioco il personaggio del cartone animato disneyano di Tarzan, che è probabilmente nato in un Happy Meal di Mac Donald o in un Kid’s Meal di Burger King (l’ho trovato per strada a Brooklyn). Ho sempre desiderato realizzare le forme di fango delle bottiglie come qualcosa di più grande. Ad Albisola ho avuto l’ opportunità di farlo, ma anche di estendere e di sviluppare il loro significato. Ho realizzato una serie di disegni in cui ho introdotto Tarzan nel fango della forma della bottiglia. Sia la bottiglia di rum, sia il personaggio d’animazione di Tarzan sono simboli del commercio e della cultura. Tarzan sembra muoversi lungo la forma della bottiglia, emergendo e tornando indietro, attaccando il fango, suggerendo e mettendosi in relazione con le dinamiche del potere — creando un’incursione, una recessione e alla fine un’infrazione.
L’argilla mi è sempre sembrata il mezzo giusto per questo progetto. Quando il maestro ceramista Danilo Trogu mi ha informato che l’unico modo per realizzare questi oggetti era di farli a mano, mi sono emozionata. Mi sembrava un modo per attaccare fisicamente un significato, per sperimentare il fango. Nel fango c’è un margine di imprevedibilità, come nel lavoro con l’argilla. Mi capita sempre di arrivare a un punto in cui i mezzi (i materiali) e il significato giungono insieme e l’opera prende vita dicendomi cosa vuole essere. A questo punto mi abbandono al processo e vado distaccandomi dalla ricerca di un risultato preciso. Alla fine dello svolgimento, ho attraversato un periodo difficile che mi ha allontanato dal laboratorio di ceramica, perché le tre sculture Oozing Red, White and Blue: Incursion, Recession, Infraction avevano tantissime altre cose da dirmi.

Nicole Awai

Roberto Bertagnin

Roberto Bertagnin, Architettura

Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni

Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni, Potpourri

Bili Bidjocka

Bili Bidjocka, Zebra-skin

Bili Bidjocka, Tiger-skin

Bili Bidjocka, Leopard-skin

Bili Bidjocka, Zebra-skin

Pelle

(...) vorrei portare avanti l’idea sviluppata nella prima Biennale e continuare la serie Skin. La forma adottata sarà la stessa del primo vestito, ma questa volta vorrei presentare diversi modelli: pelle di zebra, pelle di leopardo, pelle umana e così via, oltre ad alcuni mimetismi tipici “da giungla”. Le dimensioni di ciascun vestito saranno circa: 2,10 x 80 cm. Poiché tutti i vestiti costituiscono un unico pezzo, il risultato sarà una specie di opera monumentale. Penso che sarà difficile riprodurre in ceramica il vestito che imita la pelle umana perciò, in questo caso, credo che utilizzerò la riproduzione fotografica, in modo da poter trasferire su ceramica l’immagine dell’epidermide, senza cercare di riprodurla dipingendola (...)

Bili Bidjocka

Adriano Bocca

Adriano Bocca, Concetto rurale

Adriano Bocca, Concetto rurale

Tiziana Casapietra: Il lavoro che abbiamo selezionato per la Biennale si intitola Concetto Rurale ed è datato 1972. Mi puoi parlare di questo lavoro e degli anni in cui è stato realizzato?
Adriano Bocca: La mia giovinezza l’ho trascorsa con gli artisti che in quegli anni frequentavano Albisola e in particolare con coloro per i quali la ricerca era fuori dall’ambito della pittura.

TC: Non hai mai pensato a questo lavoro come a un gesto volutamente dissacrante nei confronti di uno dei più importanti interpreti dell’arte contemporanea?
AB: Chi conosceva Fontana sapeva che non avrebbe mai considerato dissacrante un fatto d’arte. Non sopportava la volgarità, ma concedeva tutto all’arte. In quegli anni io preferivo frequentare Fontana, Manzoni; ad Albisola c’erano anche pittori come Sassu o Capogrossi; ma a quindici, sedici anni si scelgono sempre gli estremi. L’operazione che ho fatto su Fontana intendeva richiudere lo spazio che lui aveva aperto.

TC: Cosa ti ha lasciato l’Albisola dei Fontana e dei Manzoni?
AB: In quegli anni io avevo la fortuna di lavorare alla fabbrica Ceas dove potevo incontrare uomini che, come lo stesso Fontana, erano estremamente generosi nei confronti di ragazzi come me che cominciavano a fare qualcosa. La loro simpatia era però mediata da un estremo rigore. In questa fabbrica oltre a Fontana, lavoravano Crippa, Garelli… poi andavi al Bar Testa dove tra gli altri trovavi Fabbri, Capogrossi, Mario Rossello e Dangelo. Vivevamo tutta la giornata lavorativa vicino a queste persone; se poi eri fortunato riuscivi anche a infiltrarti e a scroccare una cena da Pescetto e continuavi a imparare.

TC: Parlami della Ceas.
AB: La Ceas, ceramisti associati, era una squadra di tre persone: Pedrin, un bravissimo torniante; Mantero, un fornaciante, perché in quella fabbrica si cuoceva ancora a legna; e Platino, l’uomo del colore, quello che preparava le misture. Qui gli artisti trovavano un supporto tecnico formidabile.

TC: È questa quella che tu chiami la “scuola” dove ti sei formato?
AB: Sì, arrivavi lì al mattino e stavi l’intera giornata con questi personaggi che conoscevano tutte le tecniche e tutti trucchi, ma avevano anche la capacità di inventare. Alla fine della giornata se il mio lavoro non era buono, il signor Platino ci metteva una mano sopra e lo schiacciava. Era una scuola dura, una scuola di vita.

TC: Come sono finiti quegli anni, che cosa è successo dopo?
AB: A tirare le fila di tutto questo erano Tullio Mazzotti e Fontana. Ma c’era anche un grande gallerista come Cardazzo e un artista come Jorn. Tra il 1967 e il 1973 tutti questi personaggi sono scomparsi. Mancando le figure propulsive, Albisola è entrata in un momento di crisi. È così che comincia la storia di Calice Ligure dove si affaccia la nuova generazione, quella di Mondino, di Arrojo, di Rougemount, Moncada, Dova. In questo caso a fare da collante era Scanavino che era nativo proprio di Calice. Io stesso sono andato a Calice Ligure nel 1971 a fare una mostra alla Galleria di Franz Paludetto e lì ci siamo trovati con alcuni pittori, come Nando De Filippi. In quel periodo ad Albisola invece c’era un vuoto, e allora ho cominciato a darmi da fare per portarvi quegli artisti che, a Calice, gravitavano attorno alle gallerie di Paludetto e di Remo Pastori. In fondo Calice è solo a 26-27 km da Albisola. Mi piaceva l’idea di riportare gli artisti alla ceramica. È così che si è costituita ad Albisola la generazione degli anni ‘70-’80, che ci ha dato molte soddisfazioni.

TC: Chi frequenta Albisola in questo periodo a cavallo tra gli anni ’80-’90?
AB: Tra le figure di maggior rilievo, che ho introdotto a fare ceramica, c’è Eduardo Arrojo e Aldo Mondino. Di tutti questi artisti, ci sono segni del loro passaggio ad Albisola.

TC: Memore della tua esperienza ad Albisola negli anni di Fontana e Manzoni, hai cercato di colmare il vuoto che si è configurato negli anni ‘70 riportando gli artisti alla ceramica?
AB: I sopravissuti della grande epoca di Albisola erano Fabbri e Rossello. Una mattina chiesi a Fabbri di darci una mano per cercare di superare questo vuoto. Alla mia richiesta di aiuto, ricordo che Fabbri mi disse una cosa importante: “Guarda Adriano, adesso tocca a voi, noi la nostra parte l’abbiamo fatta”. E quindi sulla base di quello e nel rispetto della storia, ci siamo messi sotto e abbiamo fatto un’infinità di mostre a cominciare con Dieci personaggi per un museo dove reinterpretando dieci dei maggiori personaggi che erano passati ad Albisola, si affermava una presenza nuova. C’eravamo noi, i più giovani, come Scrofani, Aonzo e Viale. A quell’epoca era ancora vivo Wifredo Lam. Mi ricordo la mostra del pane, tutte le sculture di pane che abbiamo fatto, a cui Lam aveva partecipato. Questa lunga partita si chiude con la mostra organizzata nel 1990 dalla Camera di Commercio, che si intitola Albisola. Gli Artisti. La Ceramica. In quella mostra erano presenti molti artisti, tutti quelli che avevano lavorato la ceramica ad Albisola, non mancava proprio nessuno.

TC: Cosa è successo dopo?
AB: Io speravo che succedesse quello che è successo a me, che qualche giovane nutrisse lo stesso amore per la storia, per la continuità di una bella storia, che crescesse attraverso di noi.

TC: Poi hai abbandonato la ceramica in favore della pittura?
AB: Oggi faccio prevalentemente pittura e la ceramica mi può essere utile solo quando è funzionale ai racconti dei miei quadri. Dopo gli anni Ottanta nessuno parlava più di arte. Tutti parlavano di mercato, di danaro, di carriere più o meno possibili o impossibili. In Europa e negli Stati Uniti sentivo dilagare un senso di decadenza. Questa è stata una delle ragioni per cui ho preferito andare in Asia, libero dalle mode e dalle leggi di mercato, a indagare culture diverse, imparare tecniche pittoriche che non conosco e a fare altri sogni.

Andries Botha

Andries Botha, Towers

Andries Botha, Towers

Andries Botha, Towers

Andries Botha, Towers

Torri

Ho iniziato con l’idea di un quadrato. L’ho disegnato e proiettato nella terza dimensione. Giocando ho sovrapposto i cubi uno sull’altro fino a creare una torre. Poi ho immaginato una serie di quadrati e rettangoli trasformati in un organismo vivente. Questa è, credo, una specie di logica che si è mutata in un principio organizzativo detto “disegno urbano”.

Sono stato colpito dalla capacità del computer di esprimere la logica della modularizzazione, della misurazione e dell’ordine in maniera così precisa.

È da un po’ di tempo che lavoro con la ceramica. Questo mezzo mi suggerisce molte situazioni metaforiche: la terra sottoposta a un intenso calore, l’alchimia della metamorfosi, tra rigidità, vulnerabilità e fragilità. L’11 settembre ha cambiato il nostro mondo, mandando in frantumi i nostri sistemi organizzativi e la nostra teoria sociale. Volevo realizzare un’opera in grado di posizionare me/noi/loro/voi quali complici all’interno di questa implosione del nostro sistema razionale. Questa azione sociale estrema, o meglio assalto, nei confronti dell’ordine sociale dominante, rappresenta una sfida all’organizzazione dei nostri sistemi filosofici. Ho cercato di presentare la mia opera come una metafora di questa logica in pezzi o oltraggiata, formulandola come un’unità di misura ripetuta nello spazio secondo una struttura modulare e ripetitiva. Un’unità modulare, definita da un quadrato che si espande in un cubo e che poi prende corpo nello spazio come una torre, un principio visibile di ordine o di organizzazione. Decostruire così una specifica visione formale o una tradizione concettuale relativa alla ceramica e alla bellezza, mi ha suggerito ulteriori possibilità di relazionarmi a questa logica, intesa come costrutto ideologico o culturale. Far crollare il mio manufatto a torre, per poi ricostruire metodicamente un’altra torre con i cocci, dà origine, secondo me, a un’interessante intersezione di reale e virtuale. La natura ossessiva e meticolosa di questo processo di ricostruzione mi ha permesso di abbandonarmi al mio personale interesse nei confronti del lavoro manuale (artigianato), inteso come un costrutto fisico del tempo che si rende visibile all’interno di un universo regolato da un ordine individuale.
Giocare con le idee di reale e virtuale (o illusorio), probabilmente è qualcosa di più di una riflessione sul modo in cui le idee di verità che ho messo in campo, siano basate sulle immagini dei media elettronici popolari. Le immagini televisive della realtà, che senza requie vengono all’assalto del passivo spazio dei nostri singoli ambienti domestici, combinano la realtà all’intrattenimento. Ri-rappresentare la ricostruzione delle due torri come una realtà, o come un soggetto (c’è una torre ricostruita e c’è una torre proiettata elettronicamente), mi permette di giocare con l’idea di tragedia, elemento costitutivo interno all’idea di ordine comunemente accettata e alla nostra logica, quella logica affermata dalle nostre scienze razionali, secondo la quale sono formulate le nostre definizioni di sicurezza fisica ed emotiva.

Andries Botha

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