La Casa di Asger Jorn ad Albisola


A cura di Roberto Costantino


Marco Lavagetto, La Casa di Asger Jorn ad Albisola



Dell’architettura selvaggia

Si sa che i situazionisti, tanto per cominciare, volevano almeno costruire delle città, l’ambiente adatto al dispiegarsi illimitato di nuove passioni. Ma naturalmente non era facile; tanto che ci siamo sentiti costretti a fare molto di più. E lungo questa strada molti progetti parziali hanno dovuto essere abbandonati, una gran quantità delle nostre ottime capacità non è stata impiegata, com’è il caso, in senso tanto più assoluto e triste, per centinaia di milioni di nostri contemporanei.
Adesso Asger Jorn, su una collina della costa ligure, ha modificato un poco alcune vecchie case, e costruito un giardino che le raccoglie. Quale commento potrebbe essere il più opportuno e sereno? Siamo diventati celebri, ci dicono. Ma quest’epoca che non conosce ancora tutti i suoi mezzi, è altrettanto lontana dall’aver riconosciuto tutti i nostri. Asger Jorn tanto ha fatto un po’ dovunque che molti non sanno che è stato situazionista più di chiunque altro, lui, l’eretico permanente di un movimento che non può ammettere ortodossia. Nessuno ha contribuito come Jorn all’origine di questa avventura; in giro per l’Europa egli trovava persone, e così tante idee, e, nella più allegra miseria, spesso trovava anche di che estinguere i pesantissimi debiti che accumulavamo nelle tipografie. I quindici anni trascorsi dall’incontro di Cosio d’Arroscia hanno cambiato discretamente il mondo, ma non le nostre intenzioni.
Jorn è di quelle persone che il successo non trasforma, ma che continuamente trasformano il successo in nuove sfide. Al contrario di tutti quelli che, un tempo, fondavano il proprio carrierismo sulla ripetizione di un’unica, esausta, trovata artistica, e al contrario di tutti quelli che, più di recente hanno preteso di fondare la propria qualità generale immaginaria sulla sola affermazione di un rivoluzionarismo totale e totalmente inutilizzato, Asger Jorn non ha mai rinunciato a intervenire, anche in maniera minima, in qualsiasi campo gli fosse accessibile. Un tempo è stato fra i primi ad intraprendere una critica moderna dell’ultima forma di architettura repressiva, quella che attualmente si espande a macchia d’olio sulle “acque ghiacciate del calcolo egoista” e che chiunque può giudicare con cognizione di causa nei minimi particolari.
E in questa abitazione italiana, mettendosi ancora all’opera una volta di più, Jorn mostra come, anche a proposito della questione concreta della nostra appropriazione dello spazio, ciascuno potrà incominciare a ricostruire attorno a sé la Terra, che ne ha così bisogno.
Ciò che è dipinto e ciò che è scolpito, le scale mai uniformi fra i dislivelli del suolo, gli alberi, gli elementi aggiunti, una cisterna, una vigna, i più diversi tipi di scarti sempre ben accetti, buttati lì in un disordine perfetto, compongono uno dei paesaggi più complicati che si possano attraversare in una frazione di ettaro e anche, alla fin fine, uno dei meglio unificati. Ogni cosa vi trova il suo posto senza fatica.
Per chi non dimentica le relazioni conflittuali e appassionate, e per forza di cose rimaste piuttosto distanti, fra i situazionisti e l’architettura, questa deve apparire come una sorta di Pompei rovesciata: i rilievi di una città che non è mai stata fondata. Tanto più che la collaborazione di Umberto Gambetta in tutte le fasi dell’opera vi apporta, se non il gioco collettivo di cui Jorn ha esposto le prospettive per il superamento della separazione della cultura dalla vita quotidiana, per lo meno il suo minimo indispensabile.
Il Postino Cheval, più da artista, aveva costruito da solo un’architettura monumentale; e il re di Baviera aveva mezzi più cospicui. Jorn ha abbozzato, fra altre cose e di passata, questa specie di villaggio limitato purtroppo alla superficie di una così piccola “proprietà privata”, testimonianza di ciò che si può cominciare a fare — come diceva un altro di quelli che posero le basi del movimento situazionista, Ivan Chetcheglov, “con un po’ di tempo, di fortuna, di salute, di denaro, di riflessione, (e anche) buon umore...’
Il buon umore comunque non è mai mancato nello scandalo situazionista pur in mezzo a tante rotture e violenze, rivendicazioni incredibili e strategie imparabili. Quelli che amano interrogarsi invano su ciò che la storia avrebbe potuto non essere — del genere: “sarebbe stato meglio per l’umanità che queste persone non fossero mai esistite” — si porranno assai a lungo un divertente quesito: non si sarebbe potuto placare i situazionisti, intorno al 1960, mediante un qualche riformismo lucidamente recuperatore, dando loro due o tre città da costruire, invece di spingerli agli estremi, costringendoli a scatenare nel mondo la più pericolosa sovversione che si sia mai vista? Ma altri certamente ribatteranno che le conseguenze sarebbero state le stesse e che cedendo un po’ ai situazionisti, che comunque non intendevano accontentarsi di poco, non si sarebbe fatto altro che aumentare le loro pretese e le loro esigenze; e si sarebbe soltanto giunti un po’ più in fretta allo stesso risultato.

Guy Debord

Albisola, Settembre 1972



Testo pubblicato nel catalogo della I Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Il volto felice della globalizzazione”, Attese, Albisola (Italia), 2001. Courtesy  F.lli Pozzo, Torino - Le Jardin d’Albisola, 1973