Le esposizioni in evoluzione


Hans-Ulrich Obrist



Cooperazione
La storia classica delle esposizioni ha dato importanza all’ordine e alla stabilità. Oggi, al contrario, assistiamo a fluttuazioni e instabilità: all’imprevedibile. Nella fisica del non equilibrio si trovano diverse concezioni dei sistemi instabili e della dinamica degli ambienti instabili. Unire incertezza e imprevedibilità a organizzazione appare una questione importante. Invece delle certezze, quindi, un’esibizione che esprima possibilità relazionali. Mi riferisco alla questione delle mostre evolutive e allo sviluppo di esposizioni considerate in quanto sistemi complessi e dinamici che si modificano con l’apprendimento e innescano loop retroattivi. Questi sono elementi fondamentali per sconfessare l’evidente omogeneità paralizzante dei grandi progetti espositivi e per mettere in discussione l’idea obsoleta del curatore come grande pianificatore. E’ solo quando il processo di messa in discussione ha inizio, che comincia ad affiorare la mostra. Mostra in permanente costruzione, mostra nella mostra. Sconfessare o mettere in discussione il grande progetto vuol anche dire che molto spesso organizzare un’esibizione è un invito a invitare altri, è come fare molte mostre in una, come in una matrioska. Ogni esibizione ne nasconde un’altra.
In un momento in cui la cooperazione tra i musei e le diverse esposizioni è sempre più guidata dalle ragioni economiche dei pacchetti di mostre itineranti che viaggiano per tutto il mondo, si avverte l’urgenza di pensare una interconnessione che sia non-profit, competitiva ma finalizzata all’arte. Come sottolinea l’economista indiano Amaryta Sen, si sente la necessità di relazioni empiriche che connettano libertà di diverso tipo: bisogna innescare uno scambio che porti vantaggi reciproci, nei termini di relazioni che connettono libertà di diverso tipo. Invece di ampliare ulteriormente dei conglomerati museali sempre più grandi e che diventano sempre più omogenei, occorre favorire una collaborazione tra modelli diversi che possa ampliare le differenze e permettere condizioni diversificate “per favorire tanto la protezione, quanto l’esposizione”. (Cedric Price)

Mostra Evolutiva
L’intera concezione di mostra in evoluzione, cioè che ci sia una vita in via di sviluppo delle esposizioni, è di grande importanza. E’ quello che abbiamo cercato di sviluppare con “Cities on the Move”, la mostra itinerante sulle città asiatiche cocurata da Hou Hanru e me. Si tratta di un’idea complessa poiché le mostre in evoluzione, da un lato devono seguire l’esigenza di sviluppare mostre itineranti — un’esigenza sempre più forte a causa delle economie e del budget — ma allo stesso tempo devono anche evitare i grandi problemi che le mostre itineranti comportano sempre: mi riferisco all’energia degli artisti che si perde nel processo dello spostamento, perché il modo in cui le mostre vengono allestite nella seconda, e poi nella terza sede espositiva, molto spesso ne rappresenta davvero la fine. Capovolgere e rifare realmente l’esposizione nella terza tappa può essere la cosa più eccitante. Invece che al prodotto è importante pensare alle possibilità del museo e delle esposizioni intesi come processo, come laboratorio. Questo significa che le mostre non vengono più aperte e chiuse, ma che c’è un aspetto quasi organico, quasi vivente, per cui può aver luogo la sedimentazione dell’esposizione, al posto dell’attuale condizione da tabula rasa in cui a una mostra segue sempre quella successiva e il ricordo di quella precedente non è mai preso abbastanza in considerazione. Con “Cities on the Move” si è realizzato un dialogo in sviluppo per tre anni attraverso la mostra itinerante. A poco a poco, sono cominciate a capitare cose interessanti. Gli artisti hanno cominciato a collaborare tra loro. Si sono innescate un sacco di cose che succedevano anche al di là della mostra. In questo senso, la mostra è veramente entrata in viaggio. E’ stato un processo da un lato molto veloce, dall’altro molto lento, di dialoghi che nascevano, di collaborazioni. Questa mostra ha rappresentato un continuo cambiamento fin dal primo appuntamento di Vienna, dove di fatto l’architetto Yung Ho Cheong ha progettato un cortile vuoto. A Londra, Rem Koolhaas e Ole Scheeren hanno progettato per la Hayward Gallery quello che loro stessi hanno definito un Merzbau accelerato: per cercare di essere “economici verso la propria immaginazione”, hanno riciclato l’allestimento progettato da Zaha Hadid per la mostra precedente, “Addressing the Century, 100 Years of Art and Fashion”. Questo e altri progetti precedenti della Hayward sono stati riciclati e ricombinati da Koolhaas e Scheeren: una forma di urbanistica degli interni. La mostra è così diventata un procedimento di sedimentazione. Dopo Londra, “Cities on The Move” ha proseguito il suo processo evolutivo. Non c’è mai stata una lista fissa degli artisti invitati. Con questa mostra infatti abbiamo cercato di innescare dei loop positivi a effetto retroattivo. La mostra è poi arrivata a Helsinki, dove l’allestimento è stato progettato dall’architetto giapponese Shigeru Ban che ha usato tubi di carta, tutti di forma diversa, in un omaggio ad Alvar Alto.

L’apprendimento della complessità degli interni dal Sir John Soanes Museum
“Il tempo della visita-maratona; il tempo della complessità degli interni”, come la descrive Patricia Falguieres nel mettere in relazione il Merzbau al museo di Sir John Soanes. Attraverso il Merzbau, la temporalità delle visite-maratone di Schwitters trova il suo nutrimento più dagli eventi/intensità che dagli oggetti. Cioè la mostra non come involucro, ma come procedimento di sedimentazione costantemente instabile: gli elementi strutturali discontinui sono intricati, simili alle scale, che si specchiano all’infinito delle Carceri di Piranesi, aprendo relazioni in tutte le direzioni non lineari, in cui ciascun spettatore si costruisce ogni volta il proprio percorso. Le visite-maratone temporali al Merzbau ci conducono alla questione della mostra basata sul tempo. Tuttavia, il museo basato sul tempo e la mostra basata sul tempo sono anche in relazione col tempo dello spettatore e col tempo da lui trascorso nel museo. Penso ai cambiamenti, in termini di tempo, che si verificano necessariamente proprio rispetto alla presenza complessiva di film e video nelle esposizioni. Molti dei cambiamenti che vedo ora sono in rapporto non soltanto con lo spazio, ma anche col tempo, con l’intera questione dell’invenzione e della reinvenzione del tempo, del tempo espositivo, per creare nuove temporalità.
In Empire, Toni Negri e Michael Hardt hanno dato una delle interpretazioni più brillanti della globalizzazione. La loro descrizione della moltitudine indica nuovi spazi, in quanto i suoi spostamenti stabiliscono nuove residenze. Il movimento autonomo è ciò che definisce il luogo proprio della moltitudine. La moltitudine combatte l’omogeneità della globalizzazione, e la moltitudine costruisce nuove temporalità, processi immanenti di costituzione. Dando seguito all’importanza attribuita da Negri alle diverse temporalità, mi piace pensare al progetto di Cedric Price basato sul tempo. Price è un grande architetto e urbanista visionario inglese che ha partecipato alle diverse versioni di “Cities on the Move”. Vorrei citarlo qui: “Le prime tre dimensioni sono l’altezza, la larghezza e la lunghezza; il tempo  è la quarta dimensione di una mostra. La chiave della mostra di ‘Cities on the Move’ a Bangkok è proprio il tempo. Perché la sua intera natura, che non è la presentazione dei materiali e delle idee, ma l’utilizzo reale da parte del consumatore di idee e di immagini, esiste nel tempo. Perciò, il valore della realizzazione di una mostra è una sorta di immediatezza: una consapevolezza del tempo che non è necessariamente sempre quello di Londra o Manhattan”. Nel progetto del Fun Palace, del 1961, Cedric Price proponeva un edificio che non doveva durare per sempre, oppure essere restaurato, ma scomparire dopo una breve vita di dieci-vent’anni. Price lo aveva sviluppato, in dialogo con Joan Littlewood, come struttura flessibile all’interno di un cantiere navale meccanizzato in cui, a seconda dei cambiamenti della situazione, molte strutture potessero essere costruite dall’alto. L’idea chiave di Price è che l’edificio possa essere modificato mentre viene occupato. Questo modello sociale in libertà, secondo Price, permette “all’utente di essere libero di agire”. Il Fun Palace, in quanto edificio responsabile, deve rispondere alla necessità di mettere in relazione discipline e competenze diverse secondo parametri in mutamento. Price ha sviluppato ulteriormente queste idee in una visione di centro culturale per il Ventunesimo secolo che utilizza l’incertezza e l’incompletezza consapevole, per produrre un catalizzatore in grado di rinvigorire il cambiamento.
Contro l’amnesia degli anni-laboratorio delle mostre
Se si analizza l’effetto Bilbao e tutta l’attenzione sullo spettacolo esterno in rapporto al museo, si può constatare una fortissima amnesia rispetto alla complessità degli interni di mostre sperimentali come quelle allestite da Bayer, Duchamp, Gropius, Kiesler, Lissitzky, Moholy-Nagy, Lilly Reich e Mies van der Rohe. Con le parole di Mary Anne Staniszewskis, che ha scritto un libro eccellente, The Power of Display (MIT Press) in cui si descrive proprio questa incredibile amnesia facendo l’esempio del Museum of Modern Art di New York: “Vedere l’importanza del progetto espositivo permette un approccio alla storia dell’arte che riconosce la vitalità, la storicità e il carattere legato al tempo e al luogo di tutti gli aspetti della cultura. Richard Hamilton, in una recente intervista, ha sottolineato che “a partire dal 1851, molte grandi mostre hanno prodotto delle caratteristiche espositive di importanza storica, una manipolazione degli spazi interni che impone il rispetto di quel periodo”.

La conservazione del tempo, il “Kraftwerk” e il laboratorio (Alexander Dorner rivisitato)
Alexander Dorner, che negli anni Venti diresse il museo di Hannover, definì il museo come un “Kraftwerk”, invitando artisti come El Lissitzky a realizzare un’esposizione dinamica e contemporanea di museo viaggiante. Nel suo testo, Ueberwindung der Kunst (Il superamento dell’arte), Dorner sottolinea la sua intenzione di trasformare il cubo bianco e neutrale per occupare uno spazio più eterogeneo. Dorner andò oltre lo spazio pseudo-neutrale del diciannovesimo secolo, ancora dominante ai suoi tempi, per arrivare a quelle funzioni che caratterizzano il museo di oggi. L’importanza di Dorner sta nel fatto di aver prefigurato con grande anticipo l’urgenza di questioni come:
- il museo in permanente trasformazione all’interno di parametri dinamici;
- il museo in oscillazione tra oggetto e processo: “L’idea processuale è penetrata nel nostro sistema di certezze” (Dorner);
- il museo multi-identitario;
- il museo mobile;
- il museo come pioniere che si assume il rischio: agire senza aspettare!
- il museo come luogo di incrocio di arte e vita;
- il museo come laboratorio;
- il museo basato su una concezione dinamica di storia dell’arte: come ha scritto John Dewey, è con Dorner che siamo “nel mezzo di un centro dinamico di trasformazioni profonde”;
- il museo come verità relativa e non assoluta;
- il museo flessibile, inteso sia come mostra flessibile, sia come edifico flessibile;
- ponti tra gli artisti, il museo e le altre discipline;
Nelle parole dello stesso Dorner: “Non possiamo comprendere le forze in azione nella produzione visiva di oggi, se non diamo un’occhiata agli altri campi della vita”.

Lentezza/Silenzio
Avere dei momenti di silenzio e di lentezza costituisce una parte molto importante di una visita a un museo e, in un momento in cui le strade veloci e il rumore predominano sulla calma, credo sia importante pensare come reintrodurre la lentezza e il silenzio nelle condizioni attuali del museo. Per fuggire dalle dualità paralizzanti, Rem Koolhaas descrive le possibilità di una coesistenza/negoziazione dell’esperienza del rumore col silenzio, della velocità con la lentezza, quando nel suo ultimo progetto di museo delinea “l’idea di creare una traiettoria turistica veloce, una specie di scorciatoia che renda possibile anche il ritorno della lentezza, ovvero l’intensità. In assenza di un sistema a due velocità, le esperienze del museo si sono accelerate per tutti: al di là di tutti i tipi di ideologia che si possano avere, proporre, ripetere o rinnovare, la pura realtà dei numeri deve essere incorporata all’interno della concezione di ciascuno di questi progetti. Ci si riferiva agli anni del Laboratorium del MoMA, sicuramente una bella epoca, ma non penso che un Laboratorium possa essere visitato da due milioni di persone all’anno. Questo è il motivo per cui, sia nelle nostre biblioteche, sia nei nostri musei, ciò che tentiamo di fare è di organizzare una coesistenza dell’esperienza del rumore, pressoché urbana, con esperienze che permettono la concentrazione e la lentezza. Che per me, oggi, è il modo più eccitante di pensare l’incredibile resa nei confronti della frivolezza e il modo in cui questa possa essere compatibile persino con la seduzione della concentrazione e dell’immobilità. E la questione riguarda le visite di massa e l’esperienza profonda dell’immobilità e del trovarsi insieme all’opera.” (Rem Koolhaas, intervista con l’autore).



Testo pubblicato nel catalogo della I Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Il volto felice della globalizzazione”, Attese, Albisola (Italia), 2001.