Il dialogo nella cultura inter-locale


Young Chul Lee



Nel 1995, una delle mostre della Biennale di Venezia era intitolata TransCulture. Il curatore dell’esposizione, Fumio Nanjo, aveva invitato artisti di tutto il mondo, scegliendoli fra quelli che avessero lavorato in aree geografiche di primo piano, per creare una piattaforma fondata sulla relazione e sulla comunicazione tra culture differenti. Basandosi sulle ampie ricerche da lui stesso condotte sull’arte contemporanea dell’Asia, dell’Africa e dell’America del Sud, Nanjo si era rivolto ad artisti di varia provenienza culturale, allo scopo di dare vita a una «terza via» (secondo le parole di Homi Bhabha) attraverso la comprensione e l’accettazione delle differenze, nonché la comunicazione tra le diverse culture. Gli artisti selezionati realizzarono opere concepite per mettere in relazione almeno due tradizioni culturali diverse. Ad esempio, l’artista cinese Cai Guo Qiang presentò un unico lavoro che aveva l’interessante titolo di Bringing to Venice what Marco Polo Forgot, composto da un antico giunco portato dalla Cina per nave dall’artista stesso. Nel 1995 ricorreva il cinquecentesimo anniversario del ritorno di Marco Polo dalla Cina e il tema sotteso a quell’opera era anche la celebrazione di questo storico evento. Cai affermò che Marco Polo aveva riportato dalla Cina moltissimi oggetti e storie diversi, ma si era dimenticato una cosa: “l’orientalità”. Il giorno dell’inaugurazione, l’artista trasportò il giunco per mare attraverso il Canal Grande, per poi spargerlo in Piazza San Marco. Il suo lungo viaggio per mare dalla Cina all’Europa, nonché la spettacolarità dell’evento, risvegliarono un fortissimo interesse nel pubblico, spinto in questo modo a riconsiderare il “luogo” Asia, accogliendone la cultura come qualcosa di nuovo e riflettendo sulla portata di quello storico evento. Cos’è, dunque, la “visione orientale del mondo” di cui parlava Cai Guo Qiang? Evidentemente, non ha a che fare con la filosofia orientale “reificata” dall’interpretazione occidentale, ma implica la possibilità di una catalogazione di quell’idea in quanto tale. In altre parole, l’idea dell’orientalità è in stretta relazione con la questione della riscoperta e della ri-collocazione dell’Asia, che ha subito la dominazione, il silenzio e la sovversione, nel corso del processo di modernizzazione controllato dall’Occidente. Finora, il termine “Asia” è stato utilizzato per etichettare una certa parte dell’Asia. Nelle analisi relative al processo di formazione del capitalismo mondiale e al suo rapporto con la regione asiatica, il Giappone viene spesso escluso da ciò che si considera “Asia”, per evitare confusione e l’accentramento su una determinata parte dell’Asia. Inoltre, nel nostro uso abituale, la parola “regione” indica la parte territorialmente definita di una terra, mentre il termine “zona” ha a che fare con la connessione tra porti, città, isole e parti di una terra, senza confini politici, economici e amministrativi. Riferirsi a una determinata area di una regione asiatica come a una zona di connessione, significa analizzarla come parte di una regione che va “al di là della regione”.
Questo ci rimanda al significato originale del termine “geografia”. Poiché fa parte della natura umana il tentativo di lasciare qualcosa sulla terra come segno della propria esistenza, e dato che la geografia deve essere considerata come un’attività umana e non come una entità statica e fisica, ne consegue che quella disciplina non è il punto d’avvio dell’attività umana, ma un suo prodotto; il che è in relazione con l’etimologia della parola geografia: “scrittura della terra”. L’arte è un’attività umana: scrittura (-grafia) di qualcosa sulla terra (geo-). Nel mondo pre-moderno, la gente credeva che la terra fosse piatta e il cielo fosse circolare come una volta; credeva anche che la terra avesse una forma simile a quella di una tartaruga: anticamente, infatti, gli ideogrammi cinesi venivano scritti sul guscio di una testuggine, considerata un simbolo della terra. Di conseguenza, il patrimonio elaborato dalla civiltà, compresa l’arte, è interpretabile come una scrittura delle attività umane sul dorso di una tartaruga. In questo senso, tutta l’arte può essere vista come “geo-art”, secondo le parole di John Rajchman basate sulle teorie di Deleuze.
L’Asia è un’idea geografica più che culturale. Nonostante il fatto che negli ultimi centocinquant’anni molti asiatici abbiano cercato di delimitare in termini culturali il proprio continente, le loro definizioni sono state soltanto una conseguenza della risposta asiatica al colonialismo occidentale, e non il risultato della ricerca di un’omogeneità culturale su larga scala. Definire culturalmente l’Asia è stato anche una difesa psicologica rispetto alle fantasie interne di un “Impero”, come quella relativa alla grande civiltà che un tempo si sarebbe diffusa sul continente asiatico e che ormai si è corrotta e consumata. Di conseguenza, risulta evidente che quella di “Asia” è un’idea astratta, dovuta all’attività dell’uomo, anche se pare un’entità concreta, in quanto ha la forma di un territorio fisico, interno a una determinata regione. Termini geografici come Asia, Europa e Africa sono idee astratte. Ad esempio, fino all’epoca moderna, quando gli occidentali diedero un nome a quella terra localizzandola, le popolazioni asiatiche non sapevano di abitare in Asia. In verità, soltanto quando il nome “Asia” è stato introdotto nella lingua cinese dai missionari gesuiti, nel corso del ’600, gli asiatici sono venuti a conoscenza del fatto che quello era il luogo in cui abitavano. Nonostante ciò, non ci sono molte testimonianze relative a un qualche significato del termine in sé nella lingua cinese prima dell’800, cioè prima del momento in cui si manifestò l’urgente necessità di comprendere i nuovi sistemi mondiali che stavano portando avanti inesorabilmente il tentativo di assorbire la Cina e tutta l’Asia orientale.
Allo stesso modo, dovrebbe essere messa in discussione anche l’idea di Europa, per non dire quell’entità omogenea che è l’occidente, che comprende Europa, America del Nord e America in generale. Quello di geografia è un concetto territoriale che al momento dell’avvento della modernizzazione ha rappresentato gli interessi degli imperi, ma anche la distanza e i confini tra opposti poteri. Questa idea continua a esistere oggi, nel senso che i valori “asiatici” o dell’ “Asia orientale” sono spesso convertiti in mezzi di resistenza contro il dominio degli Stati Uniti e dell’Europa. Oggi, alle nuove Biennali che sono nate in molte città asiatiche si richiede generalmente un’ “asiaticità”. Dare tutta questa importanza all’ “asiaticità” è però sbagliato. Puntare l’attenzione su ciò che è asiatico contribuisce, infatti, a dar corpo alla fantasia che l’oriente possa incontrare l’occidente in modo equanime, credendo che introiettare l’idea dell’alterità per mezzo di una rivelazione dell’ “asiaticità” sia una forma di resistenza o un discorso alternativo all’occidente.
In ogni caso, l’immagine dell’omogeneità culturale dell’Asia non ha nulla a che fare con la concezione  storica che vede a ogni costo un’unità nell’Asia orientale. L’Asia orientale non è mai stata un’unità sul piano della politica, dell’economia o della cultura mondiali, e la cultura asiatica non ha mai raggiunto un’universalità per quanto concerne la religione o lo sviluppo capitalistico dell’economia. Gli stati-nazione dell’Asia orientale si sono sviluppati per stadi diversi, pur dando vita a una comunità immaginaria che crede di condividere la stessa civiltà originaria. Nella seconda metà del ‘900, l’interdipendenza e i cambiamenti dell’ordine mondiale basati sulla crescita economica hanno favorito l’idea di un’integrazione. Tuttavia, sembra che l’“effetto” di questa cultura unificata, formatasi sulla base di una comunità immaginaria, possa essere spiegato soltanto illustrando le basi di tale integrazione. Cultura non significa necessariamente il recupero del passato o delle tradizioni. In realtà, un conto è la tradizione culturale,   un altro è la pratica della cultura. È impossibile dare una definizione univoca della regione asiatica a causa del suo carattere incredibilmente “ibrido” e vario, aldilà di ogni comprensione. Qui di seguito ho elencato gli aspetti principali che caratterizzano la natura ibrida e unica delle città asiatiche.
• Alta densità (in termini di popolazione, spazio e utilizzo).
• Velocità di cambiamento.
Alta velocità di cambiamento e breve periodo di trasformazione. La velocità è in stretta relazione con i rapidi mutamenti dell’economia.
• Volume degli interventi.
Se viene considerato nei termini dei progetti legati al nuovo sviluppo, il volume degli interventi è ampio. Le grandi aziende e i governi stanno portando avanti mastodontici processi di sviluppo.
• Modalità parallele e marginalità.
Il ricco e il povero camminano uno a fianco dell’altro.
• Estremi contrasti di scala.
Giganteschi grattacieli monoblocco coesistono con piccoli edifici all’ interno dello stesso paesaggio.
• Elementi immensi dentro un’unica scena.
In particolare, si tratta di componenti d’informazione e comunicazione: segni, caratteri tipografici, colori e così via.
• Disordine/caos? (citazione tratta da un testo dell’architetto koreano Kim Jinai1).
Si deve dire che quelli elencati sono aspetti frammentari dell’Asia e non c’è una parte del continente in cui siano tutti presenti contemporaneamente. Esistono false versioni di un’ “Asia unica”, come circolano varie fantasie sull’“Asia”. Tutti i tratti principali del ’900 — il fondamentalismo, l’imperialismo, il colonialismo, il nazionalismo, la guerra fredda, le guerre civili e le rivoluzioni — hanno contagiato i paesi asiatici. Ancora oggi, il ricordo del secolo passato è per noi un trauma; allo stesso tempo, la veemente affermazione del desiderio di non essere dominati è divenuta desiderio di abbondanza, nell’ambito dello sviluppo rapidissimo della regione, uno sviluppo che in tutta l’Asia è caratterizzato da una forma modificata della modernità occidentale.
Arjun Appadurai ha definito “etnopaesaggio” quella realtà costituita dalle persone che vivono in un mondo in trasformazione. La cultura trans-locale rappresentata dai viaggiatori, dai migranti, dai rifugiati, dagli artisti qui invitati e da altre persone o gruppi in movimento, è divenuta un soggetto dell’arte contemporanea dell’Asia. Gli artisti asiatici più giovani sono attratti dalla possibilità di documentare il proprio ambiente e dall’utilizzo di prodotti del mercato di massa. È naturale che ci siano differenze tra le regioni e le nazioni, perché esse non hanno alcun retroterra storico, culturale, politico ed economico comune. Si insiste sempre sul “dialogo” tra culture eterogenee; nonostante ciò, spesso manca, o si perde, un punto di vista coerente su questo concetto. Il dialogo tra le culture non ha per forza a che fare con l’arte prodotta da artisti nomadi che vivono all’interno di culture diverse. Ciò su cui bisogna puntare l’attenzione è il dialogo che si crea tra gli artisti e il pubblico.
Come reazione alla violenza della semplificazione o dell’ “orientalizzazione” delle culture locali, Surasi Kusolwong mette in relazione il dialogo interiore con i costumi locali, trasformando in una forma di produzione una tattica nata dalle condizioni materiali di vita. Per lui, ciò che conta è l’unità organica e l’idea dinamica della comunità. D’altra parte Wang Du, artista cinese in esilio, trasferitosi a Parigi dopo il massacro di Piazza Tienanmen, in questa occasione ha interpretato l’avvenimento dell’11 settembre. Per lui, la comunicazione non è neutra, ma sottoposta all’influenza dei rapporti di potere. Perciò, ha realizzato un “paesaggio mediale” con la ceramica, che funziona come una tecnologia sociale che ci ricorda gli eventi politici del mondo. Inoltre, non bisogna trascurare il dialogo interiore che proviene dalla coscienza dell’artista, un elemento particolare che è stato spesso ignorato nell’arte a partire dall’epoca moderna. L’arte non è un posto adatto alle chiacchiere di tutti i giorni, ma appartiene a un luogo virtuale separato dalla realtà, il punto di partenza per la ricerca del Sé. Shimabuku ha gettato un ponte sull’oceano che separa le due culture, invitando i pescatori di Savona ad apprendere un metodo di pesca tradizionale del Giappone. Molti lavori di Shimabuku prendono il via da riflessioni giocose o da un’idea apparentemente semplice, come nel caso di Passing Through the Rubber Band, in cui l’artista invitava i visitatori della galleria a farsi passare un elastico dalla testa ai piedi, o The Story of the Travelling Café, dove l’artista si era camuffato da bar funzionante e avvicinava con queste sembianze i potenziali clienti. In proposito, Shimabuku ha scritto: “Da qualche parte, mentre qualcuno pensa: ‘Mi piacerebbe una tazza di caffè.  C’è un bar qui vicino?’ ne vedrà uno che gli viene incontro per la strada”.
Si può pensare che il tentativo di estrarre l’energia derivata o nascosta dietro il dialogo sia una ricerca del Sé, diversa dall’idea che ne hanno gli occidentali? Anche se in ambito artistico è importante interessarsi al dialogo, è necessario non confondere l’arte con le chiacchiere di tutti i giorni. Le conversazioni della vita quotidiana possono fungere da sfondo per l’arte, ma nonostante ciò è evidente che l’arte apre soprattutto a uno spazio potenziale in cui è possibile scoprire il Sé lontano dalla realtà della vita quotidiana. Hong Myung Seop ha realizzato una situazione geo-psicologica, creando un’opera site-specific con delle “uova di vita” in frantumi. Oltre a ciò, esporrà le fotografie dei riflessi creatisi sul suo lavoro con i tuorli d’uovo, che aveva collocato nei punti di Albisola e Savona muniti di fontanelle o fontane. In questo caso, il dialogo prende il via da una relazione invisibile. Quando si passa al piano del locale, si ha a che fare non soltanto con la geografia, ma anche con la coscienza o con l’incoscienza. Le comunità si formano nei pressi dell’acqua e in seguito a ciò nasce il luogo, a partire dalle relazioni umane che si stabiliscono in quel posto. Nel lavoro di Hong Myung Seop, l’arte funziona da spazio potenziale in cui si viene invitati a scoprire il Sé estrapolandolo dalla realtà grazie a una determinata relazione, per collocarlo all’interno di un Sé geo-psicologico.
È interessante il fatto che un tipo nuovo e alternativo di Biennale, con artisti provenienti da tutto il mondo, sia nato in un luogo che ha una tradizione ceramica secolare, ma che ha anche visto le gesta dell’avanguardia italiana. La ceramica può essere a ragione considerata come la risorsa più importante di una geografia culturale e come una sorta di esperanto culturale dell’uomo. Nell’ambito delle scienze dei materiali, la rivoluzione si è compiuta con l’arrivo della ceramica elettronica. Ritengo che il nuovo progetto della Biennale, in cui gli artisti contemporanei sono invitati a produrre opere in ceramica, dovrebbe sollecitare un livello più profondo di creazione bio-politica — in altre parole, la produzione e la trasformazione della vita stessa.
La ceramica non è soltanto un modo per compensare il silenzio degli oggetti d’arte ridotti a merce dall’economia di mercato, ma può far ricordare la storia e essere lo stimolo per una riflessione critica sul presente. Inoltre, questo evento di grande significato propone un modello in sé unico di collaborazione incondizionata tra gli artigiani locali e gli artisti di tutto il mondo. Per i curatori, gli artisti e gli artigiani locali che credono ancora nella possibilità del progresso, l’opzione alternativa è quella di un dialogo che parta dalle basi, vale a dire, che si opponga strenuamente alla reificazione delle culture nazionali, geografiche e continentali, perpetuando il dialogo fra la gente in giro per il mondo. In un certo senso, la conseguenza di questo tipo di opzione è la diffusione in tutto il mondo del fenomeno della “globalizzazione dal basso”.
Durante il periodo preparatorio della Biennale, ho realizzato un progetto basato sulla partecipazione del pubblico, insieme con i cittadini di Albisola e Savona, tra cui il Sindaco, i bambini, gli artisti, gli insegnanti, i curatori e i ceramisti. Ho distribuito dell’argilla a centinaia di partecipanti incontrati un po’ dappertutto — in strada, nei bar, nell’ufficio del Sindaco, nelle scuole e nei negozi — invitandoli a lasciare sul mucchio di argilla l’impronta delle proprie mani e a scrivere i loro nomi, esprimendo al contempo un desiderio.
Questo dialogo elementare e questa identificazione della corporeità di ciascuno ha aggiunto alla Biennale una sorta di solidarietà e di piacere. La discriminazione nel lavoro è stata neutralizzata dalla relazione orizzontale stabilitasi tra gli artisti internazionali e gli artigiani locali, che hanno avuto l’agio di comunicare e collaborare sullo stesso piano degli artisti, senza essere soltanto meri prestatori d’opera sul piano fisico. Si può considerare questo fatto come un ulteriore sviluppo della collaborazione sociale e del valore autonomo della produzione nell’ambito della creazione artistica, grazie all’eliminazione dei confini tra esperti e non-esperti, una differenziazione nata nel corso del processo di modernizzazione. Le esperienze concentrate e complesse, come gli incontri intimi tra gli individui, il cambiamento del Sé, il giudizio e l’errore, oltre alla gioia della scoperta che si verifica nel corso di un progetto, sono garanzie di un invisibile luogo di produzione, che è sperimentale, ma molto concreto e autosufficiente. Quando la collaborazione sociale e indipendente diverrà una precondizione della produzione, più che una sua conseguenza, e quando le nostre vite reali appariranno come un bene virtuale, le mostre della Biennale otterranno un nuovo significato che quelle del passato non hanno mai raggiunto.



1 Kim Jinai, Un-Paradigmatic practice in Architecture and Urbanism in the East Asian Part of the World, Conferenza internazionale sugli studi dell’Asia orientale, Seoul, 30 settembre 1999.


Testo pubblicato nel catalogo della II Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea, Attese, Albisola (Italia), 2003.



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